IL FLUSSO COLLOQUIALE CON LA MORTE - LA POESIA DI ALESSANDRO MOSCE’

Intervista ad Alessandro Moscè

A cura di Floriana Porta





1) La morte è il leitmotiv della sua raccolta. Tiziano Broggiato, nella nota di copertina, parla del sibilo misterioso, radente della morte, alludendo alla malattia infantile, alle rarefazioni che sovrappongono il fiato corto della possibile resa e la consapevolezza di una voluta trasfigurazione.

La morte è una rimozione psichica e una verità insidiosa, il senso della finitudine umana. Qualcosa che non si può osservare, ma che rende ogni esistenza drammatica perché non conosciamo il destino umano, ciò che ci aspetta. Il rovello, però, apre una porta, quella dell’immaginazione, alla quale il poeta si affida con tutto sé stesso. Per questo ho sempre preferito la dimensione individuale, sovrasensibile, rispetto alla storia, all’ideologia, alla morale. E’ la percezione metafisica e ultraterrena che forgia una buona parte della mia scrittura in versi. La morte rappresenta nient’altro che una prosecuzione incomprensibile della ferialità di tutti, un interrogativo sollecitato da “letti che navigano verso un porto”, per dirla con Pablo Neruda. Ma non sappiamo dove sia il porto, il punto d’approdo. Nell’abusare del sostantivo “morte” sono stato senz’altro influenzato da una grave malattia infantile che mi ha posto dinanzi al pericolo di non farcela. Il poeta, nel mio caso, esorcizza il male e la deperibilità del corpo. Giovanni Raboni, che considero uno dei più grandi poeti del Novecento italiano, parlava della comunione tra i vivi e i morti come alludesse ad un regno vicino, impalpabile ma non del tutto irraggiungibile. Credo di aver capito che cosa intendesse dire. In una poesia scrivo: “La morte entra ed esce da me / mi acquieta, non ne ho paura”. In fondo si nasce e si muore più volte, considerando che le cellule del nostro corpo hanno un’età media di sette, otto anni e si rigenerano continuamente nei tessuti. La morte non è solo un fatto luttuoso, specie nel flusso colloquiale con chi fa parte della vita interiore. Non a caso il dialogo trascendentale con mio padre nasce dal desiderio di sapere di più sull’aldilà, su Dio, su ciò che si manifesta in una visione e mai in una contemplazione ad occhio nudo.

2) Tutti i suoi critici lo considerano un erede, idealmente, della terza generazione, fuori dall’Ermetismo tout-court per un poeta che abbraccia il verso comunicativo, che ha origine con la lezione di Umberto Saba e che ripudia lo sperimentalismo. Si riconosce in questo accostamento? In quali altre attestazioni?

Sono lusingato dell’accostamento con i poeti della terza generazione e direi della tradizione. Premetto che la poesia onesta di Saba, che fissa la sua linea antinovecentista, l’ho sempre ritenuta un testamento spirituale. Alfonso Gatto (“per sempre vivi” è un’espressione tratta da un verso contenuto nella raccolta Rime di viaggio per la terra dipinta), Giorgio Caproni e Vittorio Sereni sono i poeti italiani che ho amato di più durante gli anni delle appassionate letture giovanili. Il linguaggio si modifica, ma certamente la traccia dei sentimenti rimane, come il riflesso del pensiero che si fonde con il mondo degli affetti familiari e all’età mitica dell’adolescenza, che in me ha aperto la prima faglia emotiva dopo la malattia, la somma confusa degli amori, il senso del radicamento in un luogo come fosse una roccaforte. Non posso non far riferimento ai poeti della mia terra, e non solo per l’eco insostituibile e fecondo di Giacomo Leopardi. Penso a Franco Scataglini e al concetto di “residenza”, a Remo Pagnanelli e ai suoi paesaggi crepuscolari, a Francesco Scarabicchi e all’irreversibilità di ogni perdita. Il decadentismo italiano, i poeti maledetti francesi, il romanticismo inglese, la generazione del ’98 spagnolo mi appartengono da sempre nell’intenzione di ricondurre l’anima ad un tempo e ad uno spazio precisi. Non posso non nominare Gabriele D’Annunzio e Giovanni Pascoli. Quando il poeta sfida le convenzioni sociali e si mette a nudo fa cadere un tabù. L’arte stessa educa allo svestimento, e non è un caso che le grandi tele e le grandi sculture del passato raffigurino dei nudi. La ragione del bene della letteratura ce la fornisce Tzvetan Todorov, il pensatore di origine bulgara. In poche parole Todorov dice tutto. La letteratura non è forma, non è solipsismo, non è rigore. E’ semplicemente un capolavoro di umanità, di esperienza e testimonianza. Va detto che il linguaggio della poesia non è mai compromesso con il linguaggio comune, per cui spinge verso l’altrove e si cristallizza in un codice di valori individuale (non autoreferenziale). Il poeta salva le cose perdute in un alone magico e il lettore si riconosce in un’attività riflessa. 

3) Il mito e l’epica: che ruolo ricoprono nella sua poesia? L’eros e la donna costituiscono l’occasione dell’avventura o della malinconia per la giovinezza perduta?

Non sono per il mito storico e per la reinvenzione del reale, ma neppure per l’epica intesa in senso omerico, leggendario. Come sosteneva Jorge Borges il basso epico è quello che oggi si identifica nei campioni dello sport, come un tempo avveniva per i gladiatori romani nel Colosseo. Il mio mito è stato Giorgio Chinaglia, il centravanti della Lazio degli anni Settanta. Ha avuto una funzione catartica, per così dire, durante la malattia, perché mi fu vicino (lo conobbi e lo frequentai). Mi identificavo in un simbolo di forza, in una sorta di cristo laico, come ho scritto nel mio romanzo Il talento della malattia, che mi ha permesso di raggiungere il grande pubblico. L’ultima sezione di Per sempre vivi si intitola “La guarigione”, ed è un diario in versi della mia ospedalizzazione nell’ottobre del 1983. Sognavo ad occhi aperti nel letto dell’Istituto Ortopedico Rizzoli di Bologna, seppur sofferente e con una cannula al braccio. Scrivo: “Giorgio Chinaglia con me / prepotente solo con il sarcoma / tanto da dargli un calcio violento / ingoiato da un inferno, da un luogo di punizione / dove anche Caronte trasecolò / arrivando dal cerchio degli iracondi. / Erano le quattro del mattino nel mio dormiveglia…”. La motilità immaginaria, cangiante, è stata un salvacondotto nel prato regale dello stadio Olimpico, dove sorgeva un anfiteatro personale, un tempio per le mie confidenze sussurrate. Niente a che vedere, dunque, con una tensione civile, né con il realismo d’attualità a sfondo politico. Il cerchio della memoria autobiografica fa i conti con gli archetipi. In fondo la verità è sempre dentro di noi, non può essere filtrata e non nasce dalla letteratura. Raccontare sotto forma lirica e narrativa vuol dire attraversare il passato e le metamorfosi. L’eros è l’esatto contrario della morte, cioè una pulsione vitale, tanto che Platone la identificava con la fonte principale di energia dell’anima. La donna è evasione, desiderio, inquietudine, comunicazione non solo verbale, che avviene con il corpo, senza regole. Nel ricordo è vista e visione, una conquista restituita alla letteratura. In una poesia il correlativo oggettivo si fa atmosfera fisica, anche ora. “Un’altra luna di madreperla / sfiora la malinconica discesa / nelle foschie mobili / sui tuoi fianchi di crema”. In un altro testo la notte mi suggerisce questi versi: “Ascolta il tuo e il mio respiro all’ombra della pancia / ascolta i tuoi quarant’anni addolciti / che si riprendono gli occhi”. La donna sollecita l’autenticità soggettiva e dunque della poesia.


ALESSANDRO MOSCE'

Alessandro Moscè, poeta e scrittore marchigiano (è nato ad Ancona e vive a Fabriano), ha dato alle stampe la raccolta poetica Per sempre vivi (Pellegrini, 2024). Lo abbiamo intervistato sui temi più cari del suo libro, che tornano spesso e che ripercorrono le tematiche fondamentali della sua stessa biografia. Tra le altre opere in poesia di Moscè ricordiamo L’odore dei vicoli (I Quaderni del Battello Ebbro, 2005);, Stanze all’aperto (Moretti & Vitali, 2008), Hotel della notte (Aragno, 2013) e La vestaglia del padre (Aragno, 2019).

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