UN INCANTO PRIMORDIALE

 Intervista ad Alessandro Moscè 

A cura di Floriana Porta 






1) La tua poesia segue antiche rotte o ne traccia di nuove?

La mia poesia è fortemente legata alla terza generazione del secondo Novecento italiano e non traccia nuove rotte, bensì segue propositi anti-ideologici, se così possiamo definirli. Nella storiografia letteraria degli anni Sessanta, come è noto, si è registrata una disputa tra gli eredi del Grande Stile e l’Avanguardia, in particolare tra i cosiddetti neo-crepuscolari e i Novissimi del Gruppo 63. Poeti di primo piano, però, scelsero una direzione alternativa optando per un verso libero, tradizionale. La mia è una poesia che dice, che racconta sotto forma lirico-narrativa accantonando ogni opzione gergale e l’eco di quella frattura alla quale accennavo. I miei punti di riferimento sono, tra gli altri, Umberto Saba con la sua poesia onesta nel flusso vitale della quotidianità, Eugenio Montale, Mario Luzi, Giorgio Caproni, Vittorio Sereni, Sandro Penna e Alfonso Gatto. Inoltre cito Giovanni Raboni e Stefano Simoncelli, nei quali ho avvertito una comunanza nella percezione della perdita dei propri cari e nel dialogo tra i vivi e i morti. La mia è una lingua naturale, visiva, piena di echi, reale e anche visionaria nella weltanschauung che mi riporta indietro nel tempo, all’infanzia, in particolare alle case dei nonni paterni e materni. Esperienza e testimonianza si fanno partecipi di un universo conoscitivo scorporato dalla natura e dalla storia, che aderisce ad un temperamento che fa i conti con la totalità dell’esistenza nella diade vita/morte lungo l’orizzontalità del tempo dalla quale non sono mai disancorato, come vivessi per sempre, nonostante l’età adulta, nel mito adolescenziale “che si affaccia orazianamente in un sipario di ombre, sull’orlo di una scomparsa”, come ebbe a dire Gianfranco Lauretano. La voce è quella di chi vive nella provincia italiana, nella collina marchigiana preappenninica, in un luogo alienato come tutti gli altri, affermerebbe Franco Scataglini, il dialettale di Ancona, il più grande poeta della mia terra dopo Leopardi. La poesia è uno strumento di conoscenza affiancato al ricordo personale, al mondo degli affetti, al patrimonio universale della famiglia, così come ad una memoria comunitaria (della mia gente), a qualcosa, dunque, di anti-intellettualistico. La sostanza dell’essere, anche metafisica, è concentrata nello svestimento della persona, nella forza umanistica di matrice antropologica. Non è un caso che le grandi tele e le grandi sculture del passato raffigurino dei nudi. E’ un modo per far uscire allo scoperto l’intimità individuale, specie di questi tempi, visto che la notizia rapida ha soppiantato la conoscenza e la meditazione. La mia poesia è per lo più anacronistica. Credo che meglio di chiunque altro l’abbia definita il critico Paolo Lagazzi, che occupandosi della raccolta La vestaglia del padre (Aragno, 2019) ha scritto che “un senso quasi continuo di perdita attraversa la lirica di Alessandro Moscè, ma la forza stilistica e mentale sta nell’esprimerlo in modi insieme asciutti e svagati, lasciando emergere dal fondo della vita immagini colte di sbieco, come da una svista”. C’è un verso contenuto nella raccolta esordiale L’odore dei vicoli (I Quaderni del Battello Ebbro, 2005), che ritengo fondante nella mia scrittura: “Tanti volti / ricalco al muro / come incastri di memoria, / pallide gioventù / attese e poi sfumate / nell’età che non dura”.

2) Qual è il cuore del tuo lavoro?

Ho iniziato con la poesia e non l’ho mai abbandonata. Ho ultimato la mia nuova raccolta sul mondo sensibile, sul lampeggiare delle cose e della realtà esterna, sui luoghi evocati, abitati da chi non c’è più, sul nucleo segreto dell’eros, sui protagonisti che fanno parte di una malinconia cosmica, ripresi da immagini e moti interiori. Il nucleo lirico e narrativo ha un carattere domestico, di stanze d’appartamento dove la terribilità della finitudine coincide con una specie di resa e con il pretesto, utopico, che i morti tornino ad essere vivi tra i vivi, in un tempo di feste natalizie, di giardini e stazioni, di dialoghi con l’aldilà, di giorni cupi attraversati durante l’infanzia e la malattia. Tuttavia scrivo romanzi e mi occupo anche di critica. La poesia è una propagazione istintiva, pulsionale, la narrativa ha bisogno di una pianificazione ideale e di un susseguirsi cronologico di tempi. La critica letteraria è un linguaggio a sé e implica un discernimento, un giudizio, ma nel mio caso risulta contingente al mio stile, per cui riuscirei a scrivere solo degli autori ai quali assomiglio nella fenomenologia delle tematiche e nella resa strutturale. La lettura è un continuo rinnovarsi di tensioni, ma preferisco i classici alle nuove leve. Non smetto di leggere Leopardi, Pascoli, Eliot, Machado, Baudelaire, Verlaine ecc. Seguo la narrativa di oggi perché ne scrivo come recensore. Credo però che un letterato non possa lavorare a comparti stagni, per cui nel mio sito affronto gli avvenimenti che accadono e cerco di interpretarli per non perdere il contatto con l’esistenza sociale, con la responsabilità civile, con i fattori che influenzano la nostra civiltà e il circuito del dibattito culturale. Mi interessa l’involuzione della lingua, lo spegnersi, purtroppo, di ogni pratica intellettuale, che negli ultimi dieci anni è stato progressivo. Oggi si tende ad identificare la realtà con il divismo, il sapere con il dire. La monocultura di cui parlava Pasolini si è fatta consumo e merce quando ancora non esistevano i social e la televisione era il mezzo che determinava di più le opinioni comuni. Nel 2023 la confusione generata da un grande contenitore come il web, elude quasi del tutto il ragionamento e la riflessione. La poesia, in tali condizioni, riesce a malapena a sopravvivere tra gli addetti ai lavori. Nella liquidità del terzo millennio e nell’epoca della quarta rivoluzione digitale, è necessario stabilire una comparazione tra discipline affinché si possano arginare i tentativi di sofisticazione prodotti dai mezzi espressivi rivolti all’intrattenimento e condizionati dalla vulgata popolare, stereotipata e spesso spettacolarizzata (è questo il rischio degli slam poetry). Un argomento suggestivo, complesso, che segna una sfida intorno al destino e al pubblico della poesia. Dovremmo recuperare uno spirito di collaborazione e confronto, di passione e rigore, che tra i poeti della mia generazione, nati negli anni Sessanta, è completamente venuto a mancare.

3) La poesia è un bisogno o un desiderio?

La domanda, a bruciapelo, non consente una risposta immediata. La poesia è un bisogno e un desiderio, ma è anche altro. E’ inquietudine, spaesamento, solitudine. E’ compensazione, riparazione, confessione. Sono stati molti i tentativi di inquadrare la poesia. Per Leopardi era il respiro dell’anima; per García Lorca una forma d’amore; per Coleridge le parole disposte nel miglior ordine; per Shelley la bellezza nascosta nel mondo; per Borges un mistero; per Shelley la testimonianza delle menti felici. La poesia è anche disperazione. Penso a Dino Campana e alla sua psicosi, alla gioia “malata di universo” di Ungaretti, al male di vivere di Montale. La poesia può essere uno stato d’animo racchiuso nelle piccole storie che diventano universali. Il poeta, in fondo, è invocato affinché parli per tutti. L’affinità elettiva tra lo scrittore e il lettore è un incontro perfetto, il rispecchiamento dell’uomo nell’uomo, il prisma e lo specchio di Borges. Si scrive per non morire del tutto, disse Ionesco. La finitudine umana è una tragedia che ci fa vestire maschere e consegnare considerazioni assorte. Pertanto il bisogno di lasciare un indizio, un’attestazione, fa parte del motore spirituale del poeta. Scrivo poesie quando sono suggestionato dalla sensitività della veglia, da un incanto primordiale, dal risveglio del sentimento, dall’orrore del vuoto, dalla consistenza materica degli oggetti appartenuti a mio padre, a nonno Ernesto, a nonna Altera. Sono questi gli strumenti umani, per dirla con Sereni. Ecco che allora il bisogno può coincidere proprio con il desiderio.


ALESSANDRO MOSCÈ

Alessandro Moscè è nato ad Ancona nel 1969 e vive a Fabriano. Si occupa di letteratura italiana. 

Ha pubblicato le raccolte poetiche L’odore dei vicoli (I Quaderni del Battello Ebbro, Porretta Terme, 2005), Stanze all’aperto (Moretti & Vitali, Bergamo, 2008), Hotel della notte (Aragno, Torino, 2013, Premio San Tommaso D’Aquino) e La vestaglia del padre (Aragno, Torino, 2019). E’ presente in varie antologie e riviste italiane e straniere. I suoi libri di poesia sono tradotti in Francia, Spagna, Romania, Stati Uniti, Argentina e Messico. 

Ha pubblicato il saggio narrato Il viaggiatore residente (Cattedrale, Ancona, 2009) e i romanzi Il talento della malattia (Avagliano, Roma, 2012), L’età bianca (Avagliano, Roma, 2016), Gli ultimi giorni di Anita Ekberg (Melville, Siena, 2018, finalista al Premio Flaiano) e Le case dai tetti rossi (Fandango, Roma 2022, Premio Prata). 

Ha dato alle stampe l’antologia di poeti italiani contemporanei Lirici e visionari (Il lavoro editoriale, Ancona, 2003); i libri di saggi critici Luoghi del Novecento (Marsilio, Venezia, 2004), Tra due secoli (Neftasia, Pesaro, 2007), Galleria del millennio (Raffaelli, Rimini, 2016), l’antologia di poeti italiani del secondo Novecento The new italian poetry (Gradiva, New York, 2006) e la biografia Alberto Bevilacqua. Materna parola (Il Rio, Mantova, 2020). 

Ha ideato il periodico di arte e letteratura “Prospettiva” e scrive sul quotidiano “Il Foglio”. Ha diretto il Premio Nazionale di Narrativa e Poesia “Città di Fabriano”. Il suo sito personale è www.alessandromosce.com.



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