LA STRADA DELLA POESIA

 



INTERVISTA A LUCIO ZINNA

A cura di Floriana Porta


1) La poesia, per lei, è un luogo dove si arriva per restare o per ripartire?

Quando si tratti non di un fatto occasionale bensì di una scelta di vita, la strada della poesia si snoda normalmente in un percorso in cui durata ed estensione coincidono con la vita stessa. Rari i traguardi che si ritengano raggiunti una volta per tutte. Solitamente intermedi non definitivi. Si riprende il cammino. Una dinamica di arrivi e partenze. Il “poiein” comporta una costante ricerca, un ri/mettersi alla prova, ogni volta. Personalmente, come ho avuto modo di dire in altre occasioni, non sono io a “cercare” la poesia, è lei che mi viene a cercare e io mi limito a cogliere i segnali. Ci sono periodi, brevi o lunghi, di silenzio creativo: nessun impulso, nessuna scintilla, nessuna formulazione di quel che Paul Valéry chiamava «nucleo proliferante». Bisogna attendere. Da giovani, parecchi scrivono poesie, specie d’amore, pochissimi continuano. Qui parliamo non di poesia occasionale ma, ripeto, di poesia come scelta di vita, parliamo non di chi si trovi temporaneamente a “fare” il poeta, ma di chi intende “essere” poeta. Non mancano, ma sono rari, i casi in cui, anche dopo intensa militanza con esiti esteticamente rilevanti, si smetta di scrivere. Famoso e clamoroso il caso del grande Arthur Rimbaud che, dopo i vertici raggiunti in giovane età con “Una stagione in inferno” e “Illuminazioni”, smette. All’amico Delahaye che gli chiede se scrivesse ancora, risponde: «Io non penso più a questo». E da lì a poco lascia l’Europa per l’Africa, dove si dedica a ben altro. Niente più versi, per quel che se ne sappia. Mi viene difficile credere che il blocco dell’atto di poesia abbia comportato in lui l’impossibilità di continuare a vedere ‘poeticamente’ il mondo, pur nelle pieghe (e beghe) dei complicati affari in cui si era calato. E quando, non molti giorni prima della sua prematura scomparsa, che avvertiva imminente, dice alla sorella Isabella: «Andrò sotterra e tu camminerai nel sole», è già questo uno squarcio, ancorché involontario, di poesia, un modo di vivere la vita (e la morte) ancora e nonostante tutto con gli occhi del poeta. Penso, insomma, che si resti poeti anche quando si dovesse cessare di misurarsi con il bianco della carta. Ma di solito non si smette. Scelta la strada della poesia, si “resta” con essa, si cammina insieme: «compagna di vita», come ebbe modo di appellarla Ippolito Nievo in prolepsis al suo romanzo incompiuto “Il pastore di anime”. E ciò, anche perché la poesia si rivela, fra l’altro, un formidabile strumento per “leggere” il reale nella sua complessità, interpretandolo, secondo un’ottica particolarissima che consente di scorgervi, per lo più, quanto molti non riescono a vedervi. Beninteso, oltre che a “leggere” in se stessi. Una sorta di fendinebbia.


2) Come si trasforma in arte la vita e in parola i gesti, i pensieri e le emozioni?

La vita si trasforma in arte quando è osservata con quel “terzo occhio” particolare di cui dispone l’artista, che penetra nei suoi recessi, anche segreti, spingendosi al di là delle apparenze, del consueto, e sottoponendola quindi a un processo trasfigurante, per così dire, calandola e filtrandola nella visione dell’artista stesso e nel linguaggio specifico con cui si misura costantemente (diciamo pure, piegando la materia, quale che sia). Fino a raggiungere quella ‘coincidentia’ tra quanto realmente espresso e quel che l’artista si prefigurava, si prefiggeva, di esprimere. Anche se ‘prima’ dell’atto creativo tutto – o parte – dovesse essere ancora avvolto nelle nebbie dell’inesprimibile. Il ‘gioco’ è tutto qui. L’inespresso, finché resti ancora tale, dimora pur sempre nel limbo dell’inesprimibile; nell’arte trova forma e assieme ad essa la propria ‘substantia’ e si fa espressione: unica e irripetibile. Diventa “opera”. Dall’osservazione del reale, dalle sensazioni, dalle emozioni, dalle suggestioni, dalle riflessioni all’espressione, in maniera non ancora vista o inaudita o mai detta o non ancora detta così, a seconda del genere artistico praticato. Un iter che risiede, da un lato, nella indispensabile perizia tecnica acquisita (ben al di là, dunque, delle esperienze di ‘apprentissage’) e dall’altra nell’aliquota di mistero che avvolge il sorgere di un prodotto artistico. L’opera d’arte come tale. Un misto di consapevolezza e, diciamo pure, di avventura in quel ‘quid’ di impalpabilità che sfugge anche all’artista stesso, ma che pure con essa riesce a fare i conti.    

   

3) Viviamo in un mondo nel quale nulla è sacro o tutto lo è?

Non porrei la questione in termini così dicotomici. Certo, viviamo in un mondo complesso, forse più di quanto dovrebbe normalmente essere, sostanzialmente disarmonico, per non dire squilibrato. Fin troppo articolato per alcuni aspetti e assai meno per altri. Viviamo in una società in cui coesistono, quando non si contrappongano in termini fieramente conflittuali, qualcosa e il suo contrario, come si usa dire. Spesso tra essere e apparire prevale quest’ultimo. Proliferano i venditori di fumo, in certi casi clandestinamente in altri liberamente quando non addirittura tutelati. Il moltiplicarsi di mezzi di comunicazione, rapidi e facilmente accessibili, ha mutato radicalmente usi e costumi, configurandosi come autentica risorsa e tuttavia rendendo possibile un uso contrapposto (come recita l’adagio, ogni medaglia ha il suo rovescio), ossia agendo a svantaggio in determinate circostanze. Dipende ovviamente – come in tanti casi analoghi – dall’uso che si faccia dello strumento, ma il problema rimane. Il nostro prossimo, capace di grandi gesti di solidarietà, riesce – anche qui in circostanze particolari – a ‘mimare’ la condizione di ‘prossimità’ per gabbare o addirittura sfruttare i propri simili. In quanto al sacro, ce n’è abbastanza in alcuni casi e poco in altri. Convivono un’indifferenza diffusa e il fanatismo. Due eccessi entrambi deleteri. C’è il caso delle religioni che spingono l’opera di proselitismo e la tutela delle loro tradizioni fino alla violenza, non considerando che in tal modo il sacro è spinto oltre i propri recinti e di fatto negato nella sua essenza, quali ne siano le giustificazioni più o meno forzate. Per quanto concerne invece la sacralità, c’è chi ne ha cognizione, c’è chi la ignora, c’è chi la combatte. Non è novità. Non sto parlando del sacro bensì della sacralità. La cognizione di questa difetta sicuramente, ad esempio, nei writer e nei graffitari che imbrattano chiese, monumenti e non solo; non hanno chiara nozione di ciò che va rispettato. Gli ambientalisti radicali che lanciano il contenuto di barattoli di zuppa contro i quadri esposti nei musei hanno un alto concetto della sacralità del pianeta ma non hanno un pari concetto della sacralità dell’arte. Il fatto è che imbrattando “I girasoli” di Van Gogh con una passata di pomodoro non si salva il pianeta. Per fortuna è il vetro a salvare il capolavoro. In un mondo come il nostro, contro il coacervo di contrapposte posizioni e contrastanti interessi, resta da tutelare innanzi tutto, a mio modo di vedere, la capacità di un sereno, obiettivo, disinteressato atteggiamento di valutazione critica. Se ci si riesce. A non riuscirci si favorisce il degrado, che rode e corrode il progresso che siamo riusciti difficoltosamente a realizzare. Vorrei appellarmi a un sano realismo, dunque fuori sia dalla logica del pessimismo, nella quale non riesco a inquadrarmi, sia da quella dell’ottimismo, nella quale parimenti non mi inquadro. Il pessimismo tende a porre ostacoli anche laddove non ci sono, l’ottimismo a rimuoverli anche laddove ci sono. Un sano realismo, forte di capacità di valutazione critica, che il mondo di oggi – nei suoi aspetti sacri e in quelli profani – farebbe bene a scoprire e a praticare. Più di quanto non faccia.


LUCIO ZINNA

Lucio Zinna è nato a Mazara del Vallo (Trapani) nel 1938, si è poi trasferito giovanissimo a Palermo e al 2007 vive a Bagheria. Ha pubblicato, di poesia: Il filobus dei giorni (Organizzazione Editoriale, 1964), Un rapido celiare (Quaderni del cormorano, 1974), Sàgana (Il Punto, 1976), Abbandonare Troia (Forum, 1986), Bonsai (ILA Palma, 1989), Sagana e dopo (Cultura Duemila, 1991), La casarca (La Centona, 1992), Il verso di vivere (Caramanica, 1994), La porcellana più fine (Sciascia, 2002), Poesie a mezz’aria (LietoColle, 2009), Stramenia (con dipinti di E. Petrizzi, L’Arca Felice, 2010); di narrativa: Antimonium 14 (Quaderni del cormorano, 1967), Come un sogno incredibile / Il caso Nievo (Giardini 1980, Caramanica 2006), Il ponte dell’ammiraglio (Thule, 1986), Trittico Clandestino (Ediprint, 1991), Un’estate a Ballarò e altri racconti (Ianua, 2010). Numerosi i saggi, prevalentemente dedicati ad autori siciliani del ‘900, in parte confluiti nel volume La parola e l’isola. Opere e figure del Novecento letterario siciliano (Istituto Siciliano di Studi Politici ed Economici, 2007). Ha curato la sezione Sicilia (testo critico e antologia) in “Dialect Poetry of Southern Italy”, a cura di L. Bonaffini (Legas, New York, 1997). Ne “I quaderni di Arenaria” sono apparsi: Nietzsche e Kafka (2001), Due letture dantesche (2002), Gli equilibri della poesia (2003), Perbenismo e trasgressione nel ‘Pinocchio’ di Collodi (2008), Stagioni della vita e metafore della ‘soglia’ nel realismo radicale di Leopardi (2010). Suoi testi sono stati tradotti in varie lingue. Sito web: www.literary.it/ali/dati/autori/zinna_lucio.html


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