IL PESO DEL LINGUAGGIO

Intervista a Giorgio Linguaglossa

A cura di Floriana Porta



1) Il silenzio è una dimensione interiore potente e necessaria. Dietrich Bonhoeffer scrisse "La giusta parola nasce dal silenzio, ed il giusto silenzio nasce dalla parola". La poesia, secondo lei, ama il silenzio?

Non penso che la nostra «dimensione interiore» sia il «silenzio», non esiste il silenzio. Heidegger inizia il suo saggio In cammino verso il linguaggio dicendo che in realtà noi non stiamo mai in silenzio, parliamo, parliamo sempre, per l’uomo è impossibile non parlare sempre magari con noi stessi, il flusso di parole ci segue sempre e ci precede, non possiamo sfuggire a questa condizione. E poi non è vero che la poesia sorga dal «silenzio», io invece penso che la poesia sorga dal «rumore». Io scrivo sempre quando sono immerso nelle chiacchiere dei talk show, nelle parole dei telegiornali, nelle parole che leggo, che ascolto. Dal silenzio (ammesso che esista) non nasce altro che il silenzio.

 

2) In un suo splendido articolo su Kikuo Takano, poeta di grande complessità, ha scritto che la sua poesia proviene dal Vuoto. Qual è il vuoto che ci colma?

Il poeta giapponese Kikuo Takano ha asserito che la sua poesia proviene dal «vuoto». Verissimo. La poesia moderna ha a che fare sempre e direttamente con il «vuoto». Ma che cos’è questo «vuoto» che non è visibile?, che non appare mai?, che è imprendibile?, che è incomprensibile? - Se avessi una risposta pronta la metterei nella mia valigia e me la porterei sempre dietro, ma una risposta valida per tutti e per tutto non c’è; posso dire che il «vuoto» si costruisce, è quella costruzione che ci consente di fare «esperienza». L’«esperienza» non la si fa con il «pieno» ma con il «vuoto». È paradossale, lo so, ma è così. Il pensiero comune pensa che si faccia esperienza del «vuoto» quando lo si rappresenta in un quadro, in una poesia, in un film, e invece si fa esperienza del vuoto quando si esce da una concezione rappresentativa e si pensa al «vuoto» come quella situazione che ci accompagna in ogni istante della nostra esistenza, in quanto noi stessi siamo fatti di «vuoto», le nostre passioni, le nostre idee, le nostre sensazioni sono fatte di «vuoto». Il che non dovrebbe portarci verso una rassegnazione quanto invece indurci all’azione, alla attività. Dobbiamo costruire il «vuoto». È questo il compito della poiesis.

Giorgio Agamben afferma che «nella nostra cultura esistono due modelli di esperienza della parola. Il primo modello è di tipo assertivo: due più due fa quattro, Cristo è risorto il terzo giorno, i corpi cadono secondo la legge di gravità. Questo genere di proposizioni sono caratterizzate dal fatto che rimandano sempre a un valore di verità oggettivo, alla coppia vero-falso. E sono sottoponibili a verifica grazie a un’adeguazione tra parole e fatti, mentre il soggetto che le pronuncia è indifferente all’esito.

– Esiste però un altro, immenso ambito di parola del quale sembriamo esserci dimenticati, che rimanda, per usare l’intuizione di Foucault, all’idea di “veridizione”. Lì valgono altri criteri, che non rispondono alla separazione secca tra il vero e il falso. Lì il soggetto che pronuncia una data parola si mette in gioco in ciò che dice. Meglio ancora, il valore di verità è inseparabile dal suo personale coinvolgimento».

 

3) La poesia è peso o leggerezza?

Un giorno la poetessa Maria Rosaria Madonna (1940-2002) mi confessò che non leggeva la poesia dei contemporanei perché si sentiva minacciata da «quelle parole» che piombavano sulla pagina con la forza posticcia del magnete dell’io auto assolutorio che, nella sua strategia difensiva ed auto organizzatoria, si pone sempre in ascolto di ciò che più gli conviene, mai di ciò che è importante per noi. Mi scrisse di non credere al «canto sepolto e originario», che non v’è mai stato un «canto sepolto e originario», una lingua dell’origine di cui sarebbe da trovare il bandolo di una matassa dimenticata… occorreva invece - mi scrisse - una diversa pratica della poesia, una pratica che fosse una distanziazione, un prendere le distanze, un allontanamento da quelle pratiche totalitarie che vogliono assoggettare la parola al governo di una linearità insindacabile che oggi invece è diventata ingovernabile in quanto presuppone una concezione totalitaria dell’io plenipotenziario.

Oggi, al contrario occorre sindacare, interrompere, rigettare, porre tra parentesi quel tipo di costruzione lineare in quanto posticcia, prodotto dell’ideologema dell’io, superfetazione dell’io, epifenomeno dell’io posticciamente posto. Oggi occorre, al contrario, lavorare sull’io per spezzare il collegamento al segno linguistico referenziale e referenziato che una certa tradizione «maggioritaria» ci ha consegnato in eredità. Ma, come fare? Come fare per uscire da questo circolo vizioso che ci riporta inevitabilmente al «canto sepolto e originario»?, all’elegia, seppur rimodernata, al canto seduttivo ma fittizio.

Occorre allora introdurre nella costruzione una de-costruzione, un disallineamento, una trans-letteralizzazione, una trans-contestualità che interrompa lo scorrere frastico del tempo sintattico unilineare, che mini l’ordine prestabilito e preformattato del logos autoritario con il quale la «nuova poesia» non ha nulla da spartire né da condividere. In questa diversa pratica delle parole è indispensabile introdurre una distanziazione delle parole diventate inospitali e inabitabili. La nuova fenomenologia del poetico in cui sono impegnato si occupa proprio di questo: fare una poesia fatta di «vuoto» costruito con le parole diventate inospitali e inabitabili. È questo il Grande Progetto della nuova poesia.

Improvvisamente, quella tradizione che appariva nella sua enorme pesantezza, si rivela invece come liberatoria, adesso le parole possono venire alla luce senza dover attraversare quelle paratie difensive, quei muraglioni intimidatori che le vorrebbero auto assolutorie e respingenti. E allora scopriamo che quella «pesantezza», come diceva Nietzsche, si è convertita in «alleggerimento», il peso più grande è diventato il peso più piccolo, l’arroganza di certe parole che vorrebbero porsi come miti e ingenue si è mutata in inospitalità: le parole sono diventate inospitali, non hanno più un «luogo», sono diventate distopiche, inabitabili. Il peso di quel linguaggio dell’origine positivizzata è diventato insopportabile e produce afasia, normologia. È inevitabile che quando una tradizione collassa, sorgano anche le «nuove parole» di un «nuovo universo». Così, non resta altro da fare che operare un ripiegamento, una ritirata e un salto in avanti verso un nuovo avamposto, fuori dalla ideologia dell’io che ci sorveglia sempre e ci incute pesantezza. Occorre rinunciare a tutte le posizioni acquisite, di comodo, rinunciare alle rendite parassitarie. E ripartire con maggiore forza e convinzione.


Ecco una poesia di una poetessa francese che vive a Roma, Marie Laure Colasson:


Rullo di tamburo
La pioggia
Un fiore rosso
I suoi passi verdi
Un volo cinematografico

Tra due uomini
Uno morto uno vivo
Così diversi
Confronto confusione
Charlotte cavalca la sua Harley Davidson
Scappa

Gli uccelli
Frecce del cielo
Indossano le loro tute spaziali
Per affrontare gli astri

“fiori di ninfea”
Nel petto
Zaza con umorismo
Infila verità
Come fossero perle

Sorella Candida della perversione
Imbottita di Sporanox
Però di notte………

L’astrofisico
Osservazione al telescopio
Colori e ombre
Mutanti a secondo delle ore
Si gratta il cranio

Barbara e Rimbaud
Un viaggio attraversando gli oceani
“si recarono (…) in spiaggia
E fecero molti figli”

Languore e voli di violini
Cristallizzazioni ad occhi chiusi
Meditazione di Massenet

Miss Vitamine
A B C D E
Ottanta miliardi di probiotici
Immediata trasformazione
in bambola gonfiabile


La poesia sopra postata offre al lettore una pinacoteca di Figure che transitano nel nulla con il nulla sullo sfondo e il nulla nelle parole. Sbaglierebbe chi giudicasse questa poesia come un «gioco» alla maniera novecentesca di Apollinaire e dei surrealisti, qui non c’è nessun «gioco», e, se c’è, è un «gioco» serissimo e leggerissimo che ha a che fare con le Figure che si presentano sull’orizzonte dell’apparire per poi, subito dopo, scomparire, e magari ricomparire in altre guise, sotto altre vestizioni. L’orizzonte degli eventi è abitato da Figure. Anzi, le Figure sono propriamente l’orizzonte degli eventi e gli enti abitano quest’orizzonte (Miss Vitamine, Charlotte, Zaza, Sœur Candida de la perversion). Sono delle Figure in transito. Appena nominate, sfuggono via, hanno un barlume fuggevole di esistenza, e poi più nulla, appena nominate sono già nel passato. Lo sfondo di questa poesia è il nulla, il vuoto, il senza-fondo. Ed è sullo sfondo di questo senza-fondo che possono transitare le fuggevoli Figure che popolano questa poesia. In tal senso, le Figure sono eterne, perché eternamente si rinnovano ed eternamente transitano nel nulla.



GIORGIO LINGUAGLOSSA

Giorgio Linguaglossa è nato a Istanbul nel 1949 e vive e Roma. Nel 1992 pubblica la sua prima opera poetica, Uccelli (Roma, Edizioni Scettro del Re) e, nel 2000, Paradiso (Edizioni Libreria Croce). Ha tradotto poeti inglesi, francesi e tedeschi. Dal 1992 al 2005 ha diretto la collana di poesia delle Edizioni Scettro del Re di Roma. Nel 1993 fonda il quadrimestrale di letteratura «Poiesis» che dirigerà fino al 2005. Nel 1995 redige e firma, con altri poeti, Giuseppe Pedota, Lisa Stace e Maria Rosaria Madonna, il «Manifesto della Nuova Poesia Giorgio LinguaglossaMetafisica», pubblicandolo nel n. 7 della rivista da lui diretta. Nel 2001, pubblica il racconto lungo Storia di Omero nel volume collettivo Via Pincherle – Modelli Narrativi a Confronto, per le Edizioni Libreria Croce. Nel 2002 pubblica il libro di saggi sulla poesia, Appunti Critici – La poesia italiana del tardo Novecento tra conformismi e nuove proposte (Coedizione Libreria Croce – Scettro del Re). Suoi saggi sulla poesia contemporanea sono presenti in Linee odierne della poesia italiana, a cura di Roberto Bertoldo e Luciano Troisio (Torino, Quaderni di Hebenon, 2001), e nel volume Sotto la superficie. Letture di poeti italiani contemporanei a cura di Gabriela Fantato (Milano, Bocca, 2004). Nel 2005 pubblica il romanzo breve Ventiquattro tamponamenti prima di andare in ufficio. Ha curato l’apparato critico del numero speciale 33 di «Poiesis» del 2006 dedicato alle traduzioni di alcuni saggi del poeta russo Osip Mandel’stam e di dieci poesie inedite del poeta russo: Il fornello a petrolio (poesie per bambini). Nel 2006 per la poesia pubblica La Belligeranza del Tramonto (Faloppio, LietoColle 2006). Alcuni suoi saggi sulla poesia contemporanea sono apparsi in “Numen” del 2007, quaderno di critica edito dalla rivista di segni contemporanei «Altroverso» di Campobasso. Ha curato le presentazioni critiche dei poeti inseriti nella La poesia degli anni Novanta. Antologia (Roma, Scettro del Re, 2002) ed è presente con alcune composizioni nella Antologia della poesia erotica contemporanea (Roma, Ati Editore, 2006). Collabora in veste di critico con le riviste di letteratura: «Polimnia», «Hebenon», «Altroverso», «Capoverso», nel 2014 fonda il blog http://lombradelleparole.wordpress.com. Il suo sito: www.giorgiolinguaglossa.com



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